domenica 10 febbraio 2013

17° Capitolo "e... arriva l'aurora" (33)


17


33)
    Era settembre ed erano già trascorsi sei mesi da quando Mattia era in Africa dove si era ben ambientato ed il lavoro gli dava grandi soddisfazioni. Avevano ottenuto risultati molto interessanti e la Casa madre tedesca gli aveva fatto i complimenti.
    Come di sua consuetudine le ore o i giorni in cui non lavorava li dedicava a conoscere questa terra che lo appassionava sempre più. Oltre alla compagnia dei suoi collaboratori, che nel tempo avevano avvalorato le sue prime impressioni, aveva fatto amicizia con un prete cattolico, Don Franco, un bergamasco che guidava una piccola missione composta da chiesa, ambulatorio e scuola. Aveva quarant'anni ed era un uomo di una umanità e generosità che colpivano tutti quelli che lo conoscevano. Era in Africa da quindici anni e conduceva questa comunità con grande sacrificio ed abnegazione. Lo aiutavano nella sua opera un giovane prete pure bergamasco, Don Antonio e quattro suore: due francesi di cui una infermiera diplomata e due africane. Lavoravano giorno e notte, sempre pronti a soccorrere o aiutare chi ne aveva bisogno.
    Mattia lo aveva conosciuto casualmente perché il prete, un giorno, era passato dal loro laboratorio per chiedere se per caso avessero delle siringhe sterilizzate perché le attendevano dall'Italia ma il container era in ritardo. Mattia diede tutte le siringhe di cui disponeva ed il missionario lo invitò nella sua comunità.
    Nacque così una sincera amicizia fra due uomini che si rispettavano ed avevano molte idee in comune. Don Franco gli raccontò tante cose dell'Africa, dei suoi abitanti, del loro comportamento e Mattia acquisì una conoscenza profonda che nessun libro gli avrebbe mai potuto dare.
    Molto spesso Mattia faceva preparare una buona cena da Amedeo e, con Marco, Alfredo e François, andava a mangiare alla missione. Anche i suoi collaboratori nutrivano molta simpatia per il prete che dedicava veramente la propria vita agli africani.
    Nella missione si faceva di tutto: si sfamavano i piccoli delle tribù più povere, c'era un asilo ed una scuola, si curava e si cercava d'insegnare a questi bambini e ragazzi, un mestiere.
    I piccoli erano fantastici con quegli occhioni ridenti e lo sguardo dolcissimo. Si incuriosivano a tutto e Mattia, che si era fatto spedire dall'Italia caramelle, gomme da masticare, confetti e cioccolata, era accolto al suo arrivo da grande entusiasmo. Veniva subito attorniato dai bambini ai quali distribuiva le leccornie ed era ben ricompensato dalla loro gioia. C'era una bimba di circa tre anni, Celeste, che lo seguiva passo, passo tenendolo per i pantaloni: era orfana di padre che era stato ucciso da una banda di ribelli ed aveva due fratelli più grandi. Vedeva forse in Mattia la figura paterna e lui aveva un debole per la piccolina.
    Tramite la sua ditta a Como, che era in contatto con ditte farmaceutiche, si era fatto inviare per la missione un container di campioni di medicine e prodotti disinfettanti e, tramite suoi conoscenti, si era fatto spedire capi di vestiario, libri, quaderni, penne, matite colorate, matasse di cotone ed altre cose che Don Franco gli aveva suggerito. Aveva sostenuto sia le spese per l'acquisto della merce sia quelle della spedizione e si riprometteva di ripetere l'operazione prima del suo rientro in Italia.
    Il prete disponeva di una jeep che cadeva a pezzi e Mattia, a sua insaputa, aveva fatto venire dalla capitale un meccanico con i pezzi di ricambio e gliela aveva fatta sistemare. Ogni tanto lo seguiva nelle sue ricognizioni ed ebbe così modo di conoscere gli indigeni, i loro usi ed il loro modo di vivere. Don Franco gli raccontò che molte cose erano cambiate in questi ultimi anni e non tutte in meglio. Casualmente, durante uno spostamento con l'auto, Mattia si trovò a pochi metri da una leonessa con due leoncini e, a parte lo spavento del primo momento, rimase estasiato a vedere la regina della foresta incedere felina senza quasi degnarli di uno sguardo, seguita dai suoi cuccioli che, camminando, continuavano a giocare. Di leoni ne aveva visti tanti sia nei documentari che nei films ma l'emozione che provò nell'averli a pochi metri di distanza, fu immensa.
    Distante dai fiumi la savana erbosa era padrona ma, data l'altezza, il clima era temperato. I villaggi erano piccoli e composti da non più di duecento indigeni ed il primo che visitò era formato da una tribù Tabele, del gruppo etnico degli Zulù, che viveva coltivando un po' la terra ed allevando pecore e capre.
    Ricevettero con grandi feste il prete che portava loro medicine e zucchero e la suora infermiera cominciò a visitare gli ammalati. Vi era un medico ma era ad oltre cento chilometri. Quello che colpì Mattia furono le loro capanne che, nella loro semplicità, erano ben fatte e tutte perfettamente uguali sia in larghezza che in altezza; erano costruite con pali ricoperti da fascine di legno ed erba ed all'esterno tutta la base era rinforzata da blocchi di fango essiccati al sole. Nell'interno un grosso palo centrale vicino al quale c'era il focolare ed ogni donna decorava l'interno con colori particolari che le venivano tramandati dalla sua famiglia.
    Quel giorno festeggiavano un loro dio pagano ed erano vestiti a festa: le donne indossavano abiti dai colori sgargianti ed erano agghindate con monili vari e gli uomini sembravano appena usciti da un film di Huston: acconciature di piume, braccialetti e gonnellini fatti di code di scimmia e di gatto selvatico e, sulle ginocchia, pelli di capra e pecora fino alle caviglie. Ballavano al suono di particolari tamburi chiamati 'mudima' e di strumenti musicali ricavati dal legno o dalle corna di bue. Offrirono loro del cibo, una specie di frittata che Mattia non capì di che cosa fosse fatta e Don Franco gli spiegò essere cotta con sorgo e mais, prodotti che loro coltivavano. Ne ingurgitò qualche pezzo per non dispiacere agli Zulù e non lo trovò neanche tanto 'malvagio'.
    Mentre osservava la scena Mattia pensò a Giada ed a quanto si sarebbe divertita ed interessata a questa gente.
    Anche qui c'era il capo che era uno stregone e conosceva qualche parola di inglese ma era Don Franco che parlava il loro dialetto.
    Rientrando alla Missione nel tardo pomeriggio Mattia rivide, ad un crocevia di strade polverose, alcune persone che gli sembrava di aver visto nello stesso punto quando erano passati alla mattina. Esternò il suo dubbio al prete che gli rispose:
    " Ma qui é ordinaria amministrazione. Stanno aspettando un autobus che li porti alla città vicina ma non avendo giorni fissi per il passaggio, lo aspettano magari per due o tre giorni."
    " Certo che per noi é ben difficile poter capire questa gente." rispose Mattia
" Noi che ci spazientiamo se il mezzo pubblico ritarda cinque minuti e questi che con una calma invidiabile attendono un autobus che non si sa quando arriverà!"
    " Hai ragione e, credimi, ci vogliono anni per entrare nella loro mentalità ma dopo tanto tempo che sei qui ed hai assimilato il loro modo di vivere, capisci che sono felici così. Non puoi sentire la mancanza o la necessità di cose che non conosci."
    " Anche questo é vero. Evidentemente ho ancora la mentalità troppo civilizzata." rise Mattia.
" Oggi hai conosciuto gli Zulù" proseguì Don Franco " poi ti farò conoscere i Boscimani, gli aborigeni di questo paese e vedrai delle cose che ti lasceranno molto perplesso. Dai tuoi collaboratori africani fatti condurre a visitare la diga di Kariba, l'orrido e le profonde gole dello Zambesi che non sono distanti da voi: sono degne di essere viste."
    Rientrato a destinazione Mattia ripensava alla giornata così intensa ed interessante e gli sarebbe piaciuto poter scrivere le sue impressioni ed emozioni a qualcuno che potesse condivederle con lui ma, purtroppo, non aveva nessuno. Prese allora una decisione: avrebbe tenuto un diario, il primo della sua vita, ed avrebbe in esso riversato tutto quello che vedeva e pensava.

Nessun commento:

Posta un commento