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Era settembre
ed erano già trascorsi sei mesi da quando Mattia era in Africa dove si era ben
ambientato ed il lavoro gli dava grandi soddisfazioni. Avevano ottenuto
risultati molto interessanti e la Casa madre tedesca gli aveva fatto i
complimenti.
Come di sua
consuetudine le ore o i giorni in cui non lavorava li dedicava a conoscere
questa terra che lo appassionava sempre più. Oltre alla compagnia dei suoi
collaboratori, che nel tempo avevano avvalorato le sue prime impressioni, aveva
fatto amicizia con un prete cattolico, Don Franco, un bergamasco che guidava
una piccola missione composta da chiesa, ambulatorio e scuola. Aveva
quarant'anni ed era un uomo di una umanità e generosità che colpivano tutti
quelli che lo conoscevano. Era in Africa da quindici anni e conduceva questa
comunità con grande sacrificio ed abnegazione. Lo aiutavano nella sua opera un
giovane prete pure bergamasco, Don Antonio e quattro suore: due francesi di cui
una infermiera diplomata e due africane. Lavoravano giorno e notte, sempre
pronti a soccorrere o aiutare chi ne aveva bisogno.
Mattia lo aveva
conosciuto casualmente perché il prete, un giorno, era passato dal loro
laboratorio per chiedere se per caso avessero delle siringhe sterilizzate
perché le attendevano dall'Italia ma il container era in ritardo. Mattia diede
tutte le siringhe di cui disponeva ed il missionario lo invitò nella sua
comunità.
Nacque così una
sincera amicizia fra due uomini che si rispettavano ed avevano molte idee in
comune. Don Franco gli raccontò tante cose dell'Africa, dei suoi abitanti, del
loro comportamento e Mattia acquisì una conoscenza profonda che nessun libro
gli avrebbe mai potuto dare.
Molto spesso
Mattia faceva preparare una buona cena da Amedeo e, con Marco, Alfredo e
François, andava a mangiare alla missione. Anche i suoi collaboratori nutrivano
molta simpatia per il prete che dedicava veramente la propria vita agli
africani.
Nella missione
si faceva di tutto: si sfamavano i piccoli delle tribù più povere, c'era un
asilo ed una scuola, si curava e si cercava d'insegnare a questi bambini e
ragazzi, un mestiere.
I piccoli erano
fantastici con quegli occhioni ridenti e lo sguardo dolcissimo. Si
incuriosivano a tutto e Mattia, che si era fatto spedire dall'Italia caramelle,
gomme da masticare, confetti e cioccolata, era accolto al suo arrivo da grande
entusiasmo. Veniva subito attorniato dai bambini ai quali distribuiva le
leccornie ed era ben ricompensato dalla loro gioia. C'era una bimba di circa
tre anni, Celeste, che lo seguiva passo, passo tenendolo per i pantaloni: era
orfana di padre che era stato ucciso da una banda di ribelli ed aveva due
fratelli più grandi. Vedeva forse in Mattia la figura paterna e lui aveva un
debole per la piccolina.
Tramite la sua
ditta a Como, che era in contatto con ditte farmaceutiche, si era fatto inviare
per la missione un container di campioni di medicine e prodotti disinfettanti
e, tramite suoi conoscenti, si era fatto spedire capi di vestiario, libri,
quaderni, penne, matite colorate, matasse di cotone ed altre cose che Don
Franco gli aveva suggerito. Aveva sostenuto sia le spese per l'acquisto della
merce sia quelle della spedizione e si riprometteva di ripetere l'operazione
prima del suo rientro in Italia.
Il prete
disponeva di una jeep che cadeva a pezzi e Mattia, a sua insaputa, aveva fatto
venire dalla capitale un meccanico con i pezzi di ricambio e gliela aveva fatta
sistemare. Ogni tanto lo seguiva nelle sue ricognizioni ed ebbe così modo di
conoscere gli indigeni, i loro usi ed il loro modo di vivere. Don Franco gli
raccontò che molte cose erano cambiate in questi ultimi anni e non tutte in
meglio. Casualmente, durante uno spostamento con l'auto, Mattia si trovò a
pochi metri da una leonessa con due leoncini e, a parte lo spavento del primo
momento, rimase estasiato a vedere la regina della foresta incedere felina
senza quasi degnarli di uno sguardo, seguita dai suoi cuccioli che, camminando,
continuavano a giocare. Di leoni ne aveva visti tanti sia nei documentari che
nei films ma l'emozione che provò nell'averli a pochi metri di distanza, fu
immensa.
Distante dai
fiumi la savana erbosa era padrona ma, data l'altezza, il clima era temperato.
I villaggi erano piccoli e composti da non più di duecento indigeni ed il primo
che visitò era formato da una tribù Tabele, del gruppo etnico degli Zulù, che
viveva coltivando un po' la terra ed allevando pecore e capre.
Ricevettero con
grandi feste il prete che portava loro medicine e zucchero e la suora
infermiera cominciò a visitare gli ammalati. Vi era un medico ma era ad oltre
cento chilometri. Quello che colpì Mattia furono le loro capanne che, nella
loro semplicità, erano ben fatte e tutte perfettamente uguali sia in larghezza
che in altezza; erano costruite con pali ricoperti da fascine di legno ed erba
ed all'esterno tutta la base era rinforzata da blocchi di fango essiccati al
sole. Nell'interno un grosso palo centrale vicino al quale c'era il focolare ed
ogni donna decorava l'interno con colori particolari che le venivano tramandati
dalla sua famiglia.
Quel giorno
festeggiavano un loro dio pagano ed erano vestiti a festa: le donne indossavano
abiti dai colori sgargianti ed erano agghindate con monili vari e gli uomini
sembravano appena usciti da un film di Huston: acconciature di piume,
braccialetti e gonnellini fatti di code di scimmia e di gatto selvatico e,
sulle ginocchia, pelli di capra e pecora fino alle caviglie. Ballavano al suono
di particolari tamburi chiamati 'mudima' e di strumenti musicali ricavati dal
legno o dalle corna di bue. Offrirono loro del cibo, una specie di frittata che
Mattia non capì di che cosa fosse fatta e Don Franco gli spiegò essere cotta
con sorgo e mais, prodotti che loro coltivavano. Ne ingurgitò qualche pezzo per
non dispiacere agli Zulù e non lo trovò neanche tanto 'malvagio'.
Mentre
osservava la scena Mattia pensò a Giada ed a quanto si sarebbe divertita ed
interessata a questa gente.
Anche qui c'era
il capo che era uno stregone e conosceva qualche parola di inglese ma era Don
Franco che parlava il loro dialetto.
Rientrando alla
Missione nel tardo pomeriggio Mattia rivide, ad un crocevia di strade
polverose, alcune persone che gli sembrava di aver visto nello stesso punto
quando erano passati alla mattina. Esternò il suo dubbio al prete che gli
rispose:
" Ma qui é
ordinaria amministrazione. Stanno aspettando un autobus che li porti alla città
vicina ma non avendo giorni fissi per il passaggio, lo aspettano magari per due
o tre giorni."
" Certo che per noi é ben difficile poter capire questa gente." rispose Mattia
" Certo che per noi é ben difficile poter capire questa gente." rispose Mattia
" Noi che ci spazientiamo se il mezzo pubblico ritarda cinque minuti
e questi che con una calma invidiabile attendono un autobus che non si sa
quando arriverà!"
" Hai
ragione e, credimi, ci vogliono anni per entrare nella loro mentalità ma dopo
tanto tempo che sei qui ed hai assimilato il loro modo di vivere, capisci che
sono felici così. Non puoi sentire la mancanza o la necessità di cose che non
conosci."
" Anche
questo é vero. Evidentemente ho ancora la mentalità troppo civilizzata."
rise Mattia.
" Oggi hai conosciuto gli Zulù" proseguì Don Franco " poi
ti farò conoscere i Boscimani, gli aborigeni di questo paese e vedrai delle
cose che ti lasceranno molto perplesso. Dai tuoi collaboratori africani fatti
condurre a visitare la diga di Kariba, l'orrido e le profonde gole dello Zambesi
che non sono distanti da voi: sono degne di essere viste."
Rientrato a
destinazione Mattia ripensava alla giornata così intensa ed interessante e gli
sarebbe piaciuto poter scrivere le sue impressioni ed emozioni a qualcuno che
potesse condivederle con lui ma, purtroppo, non aveva nessuno. Prese allora una
decisione: avrebbe tenuto un diario, il primo della sua vita, ed avrebbe in
esso riversato tutto quello che vedeva e pensava.
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